Amo il pesto come amo guidare una Fiat 500 rossa in giro per Firenze e abbuffarmi di film di Luca Guadagnino: senza vergogna e con la piena consapevolezza di quanto profondamente mi stia bevendo il cliché. Ma il mio affetto non è solo per un tipo di pesto; è per la molteplicità di stili che la parola rappresenta in Italia – dalla sua casa spirituale a Genova fino alle Dolomiti e giù al sud in Sicilia.
Per essere sicuri, fatto bene, il pesto genovese è inconfutabilmente divino. La ricetta è semplice e comprende solo basilico, pinoli, olio d’oliva, formaggio stagionato, aglio e sale, il tutto pestato in un mortaio con un pestello. La semplicità finisce qui, tuttavia, poiché l’interpretazione più rigorosa del pesto genovese richiede che il basilico sia coltivato nella zona di Pra’ e raccolto giovane, che l’olio sia il delicato tipo ligure da olive taggiasche, che i pinoli siano mediterranei (non asiatici o, Dio non voglia, americani), e che il formaggio sia una combinazione di pecorino della Sardegna e Parmigiano-Reggiano, stagionato 30 o più mesi. Il pesto finale che si ottiene è sostanzialmente diverso da quello che si può trovare in negozio, non solo per la qualità e la specificità degli ingredienti, ma anche, e più importante, perché la preparazione è del momento e destinata ad essere consumata il più presto possibile.
Mentre molta energia è stata dedicata al recupero di questo “vero” pesto, ci sono molti altri pesti degni là fuori, tutti con il loro valore storico e identità profondamente regionali. Lo sforzo organizzato per proteggere e promuovere una certa rappresentazione del pesto – secondo una tradizione genovese – ha contribuito ad aumentare il profilo di quel particolare stile, con molto da guadagnare per chiunque abbia investito in quei prodotti e in quella regione. Come molte altre denominazioni d’origine protetta in Italia, la rivendicazione dell’autenticità, della purezza e della tradizione di un’iterazione ha arbitrariamente portato alla denigrazione di altre varianti.
Anche se il pesto ha proliferato in tutta la penisola italiana almeno fin dai tempi della Roma imperiale, lo si può trovare ovunque, dalle isole Eolie sparse in Sicilia (pesto eoliano, con pomodori, basilico, aglio, pistacchi o mandorle e capperi) alle Dolomiti al confine con l’Austria (pesto trentino, con prezzemolo selvatico, tuorli d’uovo e aceto).
Pesto trapanese
Una varietà di miscele di erbe e olio d’oliva appare in testi che vanno dalla prima poesia pseudo-vergiliana ai Fasti di Ovidio, e Columella descrive un precursore della moderna versione genovese che usa specificamente i pinoli nel trattato agricolo del primo secolo De Re Rustica. I grandi libri di cucina italiana del Medioevo e del Rinascimento mostrano allo stesso modo una varietà di salse pestate, alcune che sono più strettamente nel regno delle agliate (salse a base di aglio o a base di aglio preparate nello stesso stile con mortaio e pestello), e altre che sono a cavallo tra la miscela di erbe fresche che il pesto richiama oggi e miscele meno familiari con frutta secca e aceto.
In un’ottica di lungo periodo, queste iterazioni più antiche hanno posto le basi per lo sviluppo di un arcobaleno di pesti, collegando la preparazione a un contesto culinario elitario ma non legandola necessariamente a una regione o a un insieme immutabile di ingredienti.
Oggi, anche in Liguria, si può facilmente incontrare un pesto modificato dalla ricetta canonizzata, magari con maggiorana o prezzemolo al posto del basilico – o con un formaggio di tipo olandese che in realtà precede la diffusione del Parmigiano nella regione. Nell’Italia centrale, in posti come la Toscana e l’Umbria, le fave o la menta potrebbero fare la loro comparsa, o il costoso e raro pinolo potrebbe essere sostituito dalla più onnipresente noce. In Sicilia, dove la ricca cucina del mondo musulmano arabo ha piantato i semi che continueranno a dare frutti molto tempo dopo la caduta del califfato, il pesto è tipicamente fatto con i pistacchi o le mandorle portate lì dall’Asia centrale, nello stile trapanese, mescolati con aglio e pomodori maturi.
Viaggiando verso ovest per colpire la costa della Sardegna, troverete il pesto alla carlofortina sull’isola di San Pietro, dove nel XVIII secolo una comunità genovese si stabilì dopo essere fuggita dall’isola tunisina di Tabarka. Aggiungendo tonno fresco, cipolle e pomodorini al solito basilico, pinoli, aglio, Parmigiano e olio d’oliva, questo pesto tunisino-genovese-sardo sposa le influenze di tutti e tre i luoghi ed è decisamente delizioso, anche se smentisce qualsiasi pretesa di purezza nel pesto.
Come il pesto genovese, con la sua insistenza sugli ingredienti che rappresentano il meglio della costa ligure, le ricette dei pesti di altre regioni italiane riflettono i movimenti di persone e idee, un apprezzamento per gli ingredienti locali e il bilanciamento di soluzioni pratiche contro il gusto. Non c’è un solo pesto perfetto, e il vero pesto può esistere in infinite forme, purché rimanga fresco e onesto.