Le opere di Achille Mbembé e Giorgio Agamben mostrano come le nozioni di potere (statale) e sovranità sviluppate in un contesto occidentale non siano sufficienti a spiegare ciò che accade ai margini o fuori dalle società occidentali (Peoples & Vaughan-Williams, 2015, pp. 73-74). Tuttavia, le loro teorie non hanno concettualizzato adeguatamente quelle sottomesse e non sono in grado di affrontare le molteplici e quotidiane forme di resistenza (ad esempio Akıncı, 2018; Makley, 2015; Ryan, 2016). Il lavoro di Judith Butler sulla performatività di genere e sesso e sull’agency dei soggetti può aiutarci a sviluppare ulteriormente le teorie di Mbembé e Agamben. Le opere di Butler, Mbembé e Agamben possono essere tutte collocate all’interno della storia del pensiero post-strutturalista (Peoples & Vaughan-Williams, 2015, p. 77) con tutti e tre che si basano sul lavoro di Michel Foucault.
Questo saggio sosterrà che i concetti correlati del “morto vivente” di Mbembé e della “vita nuda” di Agamben dovrebbero essere riconcettualizzati come atti performativi in linea con la teoria di Judith Butler al fine di consentire l’agenzia e gli atti di resistenza/sottomissione da parte delle persone relegate come tale vita a perdere. Mentre sono d’accordo con l’utilità dei loro concetti di necropolitica e stato d’eccezione, le loro vittime sono quasi condannate alla passività e dovrebbero, quindi, essere reimmaginate in un modo che permetta la resistenza. Per fare ciò, questo saggio presenterà prima il lavoro di Mbembé (2003) e Agamben (1998) e mostrerà come i loro concetti sono spesso associati l’uno all’altro. Successivamente, verrà presentato un resoconto generalizzato della teoria di Butler (1988, 1999, 1993/2011) sulla costituzione performativa del genere e del sesso attraverso la ripetizione congenita di atti all’interno della cornice normativa dell’eterormatività. Infine, applicherò la sua teoria al nostro caso della “vita nuda”, offrendo una nuova e ampliata teorizzazione di coloro che sono stati dichiarati inumani e aprendo lo spazio per la resistenza e la sovversione.
Mbembé e Agamben sul diritto dello Stato a uccidere e sulla vita nuda
Sebbene mi concentri principalmente sulla teoria di Mbembé, che incorpora alcuni lavori di Agamben (cfr. Mbembé, 2003, pp. 12-13), cercherò di offrire un resoconto comune dei loro pensieri sulla sottomissione. Mbembé (2003, pp. 11-12) parte dall’idea che la sovranità è caratterizzata dal potere di decidere chi può vivere e chi deve morire, il che va oltre il “far vivere e far morire” biopolitico di Foucault. Il biopotere funziona dividendo le persone in quelle degne di vivere e quelle indegne utilizzando il razzismo, una “cesura biologica” che permette la distribuzione delle persone in sottogruppi e permette il diritto di morte (Mbembé, 2003, pp. 16-17). Secondo Agamben (1998, pp. 7-8), la soglia tra la “nuda vita” (vita biologica/corporea) e l’esistenza politica (bios) è fondamentale nella politica occidentale dove la zoe, la prima, è inclusa nella polis (corpo politico) solo attraverso un’esclusione. Questa centralità della soglia fa della politicizzazione della nuda vita (cioè della biopolitica) il nucleo del potere sovrano (Agamben, 1998, p. 6). Per Mbembé, la sovranità prevalente mira alla “strumentalizzazione generalizzata dell’esistenza umana e alla distruzione materiale dei corpi e delle popolazioni umane” (Mbembé, 2003, p. 14). Questo diritto di uccidere trova la sua base normativa nello stato di eccezione e nella relazione di inimicizia, che sono costantemente prodotti e invocati nella forma di un Altro come minaccia mortale la cui eliminazione biofisica mi assicura (Mbembé, 2003, pp. 16-18). La sovranità moderna confonde il regno biologico e quello politico fino alla convergenza totalizzante dei due nella preoccupazione della nuda vita del cittadino, che si accompagna al processo che fa dello stato di eccezione la regola (Agamben, 1998, p. 9). Con la politicizzazione della vita, si decide la soglia oltre la quale la vita cessa di essere politicamente rilevante, una categoria di “vita indegna di essere vissuta”, che corrisponde alla soglia della nuda vita (Agamben, 1998, pp. 139-140).
Per Agamben (1998, pp. 170-172; p. 166), il luogo principale di queste tendenze è il campo (di concentramento), che è caratterizzato dall’assoluta conditio inhumana dove ogni vita è interamente ridotta alla nuda vita. Il campo è dove e quando lo stato di eccezione diventa la regola e, quindi, dove fatto e diritto si confondono (il sovrano vuole semplicemente l’eccezione), così che l’ordine normale è sospeso e tutto diventa possibile (Agamben, 1998, pp. 168-171). Riflettendo ciò, le colonie di Mbembé (2003, pp. 22-25) sono il luogo dove il biopotere, lo stato di eccezione e lo stato di assedio si incontrano, e dove l’esercizio di questa sovranità non è soggetto alla legge. Mbembé (2003, pp. 25-27) concorda con Fanon che l’occupazione coloniale è una questione di creazione di nuove relazioni spaziali che dividono le persone in compartimenti e relegano il colonizzato in una “terza zona tra soggettività e oggettività”
Questi luoghi, dove la sovranità significa definire chi conta e chi è eliminabile, mostrano come opera il necropotere. Questa nozione emerge perché il biopotere non è in grado di rendere conto delle forme contemporanee di sottomissione della vita al potere della morte. La necropolitica cerca di spiegare il dispiegamento di armi di distruzione di massa e la “creazione di mondi di morte”, forme di esistenza sociale in cui intere popolazioni sono soggette a “condizioni di vita che conferiscono loro lo status di morti viventi” (Mbembé, 2003, pp. 39-40). Questi homo sacer (“uomo sacro”; ad esempio gli abitanti dei campi), la figura che porta la nuda vita nella politica occidentale, sono coloro che devono essere uccisi ma non sacrificati, rendendoli completamente soggetti al potere della morte (Agamben, 1998, pp. 99-100). Il necropotere è caratterizzato da tre caratteristiche che portano alla proliferazione dei luoghi di conflitto e di contatto (Mbembé, 2003, pp. 27-29): La frammentazione territoriale rende impossibile il movimento e separa le popolazioni. La sovranità verticale estende la sovranità alla terza dimensione, per cui l’occupazione coloniale opera attraverso la verticalità e il simbolismo di essere in cima, con la maggior parte delle operazioni di polizia di precisione fatte dall’aria (ad esempio i droni; pp. 28-29). Queste due caratteristiche hanno come risultato la frammentazione occupazionale, caratterizzata principalmente dall’isolamento ma anche dal controllo, dalla sorveglianza e dalla separazione delle popolazioni designate come usa e getta. La terza caratteristica, la guerra infrastrutturale o d’assedio, incarnata dall’attività di bulldozing, riguarda il sabotaggio coordinato e sistematico dell’infrastruttura sociale e urbana del nemico (p. 29).
Butler sulla performatività, le norme e la resistenza
Se la teoria di Butler dovesse essere riassunta in una frase, è probabilmente la seguente da Gender Trouble: Il genere è la stilizzazione ripetuta del corpo, un insieme di atti ripetuti all’interno di una cornice altamente normativa che si rapprendono nel tempo per produrre l’apparenza di sostanza, di una sorta di cosa naturale (Butler, 1999, p. 33).
La materializzazione di norme normative, come il genere o il sesso, che producono i corpi che governano, avviene in modo performativo, dove la performatività è intesa come la pratica reiterativa e citazionale attraverso cui il discorso produce ciò che regola (Butler, 1993/2011, pp. xi-xiii). La costruzione di tali categorie è quindi un “processo di materializzazione che si stabilizza nel tempo per produrre l’effetto di confine, fissità e superficie che chiamiamo materia” (pp. xviii-xix). Quindi, la materialità di tali norme (ad esempio il sesso) è l’effetto più produttivo del potere e si sostiene attraverso e come materializzazione di tali norme regolatrici, che rende il corpo vitale e intelligibile in primo luogo dandogli significato (pp. xxiii-xxiv; p. xii). Questa materializzazione delle norme richiede quei processi identificatori attraverso i quali le norme sono assunte e che “precedono e permettono la formazione di un soggetto” (p. xxiv). L’identificazione avviene attraverso la pratica (regolata e ripetuta) del ripudio di ciò che non è conforme alla norma, producendo un dominio sconfessato ma necessario dell’abiezione e del disumano (pp. xiii-xiv). Non c’è un soggetto a priori, ma l’io si forma attraverso il riconoscimento sociale discorsivo del soggetto, cioè la materializzazione di norme normative come il sesso (p. 171).
Per aprire uno spazio all’agency e alla resistenza, è importante dare uno sguardo più attento alla performatività. Qui, la performatività è derivata e reiterata da una (serie di) norme: La forza e la necessità di queste norme dipendono dalla “citazione” o approssimazione di queste stesse norme attraverso tali atti performativi, che sono anche costretti da quelle stesse norme (Butler, 1993/2011, pp. xxii-xxiii). Cioè, un performativo riesce solo provvisoriamente nella misura in cui “accumula la forza dell’autorità attraverso la ripetizione o la citazione di un precedente, autorevole insieme di pratiche”, ma questa storicità della forza limita il modo in cui la si può ripetere (Butler, 1993/2011, pp. 172-173). La soggettivazione da parte delle norme normative abilita anche (persino produce) il soggetto che resisterebbe a quelle norme, il che situa l’agency come una pratica reiterativa o riarticolatoria immanente al potere (non esterna e opposta ad esso) (Butler, 1993/2011, p. xxiii). Quest’ultimo fatto deriva dalle implicazioni della natura reiterativa della performance: La necessità della reiterazione mostra l’inefficacia della norma – la materializzazione non è mai del tutto completa e i corpi non si conformano mai completamente, come implica la suddetta “approssimazione” (p. xii; p. 176; p. 181). Mostra anche che la (ri)produzione è instabile in quanto si aprono lacune e fessure nelle costruzioni, ciò che sfugge o eccede la norma o non può essere completamente definito o fissato dalla sua messa in scena ripetitiva (p. xix). Queste instabilità, possibilità di riarticolazione, possono essere utilizzate per la sovversione, cooptando le pratiche di riproduzione della norma per mettere in discussione le norme regolatrici egemoniche (p. xxi; p. xii). Tale sovversione può essere praticata da una citazione teatrale che mima e rende iperbolica la norma discorsiva che abietta chi resiste, il che espone la (storicità della) norma normativa sottostante (pp. xxviii-xxix; p. 181; pp. 176-177). Questo viene fatto dalle performance di drag o dal movimento “queer” che rielaborano l’abiezione in resistenza politica.
Performare e resistere alla “Bare Life”
Sebbene Butler abbia originariamente applicato la sua teoria al sesso e al genere, la teoria post-strutturalista è applicabile a qualsiasi costrutto discorsivo, specialmente quelli che, come la razza (cfr. Mirón & Inda, 2000), vengono ad essere incarnati dalle persone e che formano sostanzialmente la loro soggettività. Come indicano le osservazioni su abiezione e resistenza, la sua teoria è utile per riconcettualizzare i morti viventi, un gruppo chiaramente posizionato nella dimensione dell’abiezione. Così, la nostra attenzione si concentra sull’imposizione della disponibilità e sullo spazio di resistenza qui presente. Il genere, il sesso o la razza sono implicati nelle relazioni di potere (per esempio l’eteronormatività, la supremazia bianca) e materializzati nel corpo (cioè incarnati), quindi dovrebbe essere ancora più facile teorizzare la costruzione di tali categorie più vagamente connesse alle caratteristiche corporee. Per rendere la connessione ancora più evidente, le teorie di Mbembé e Agamben si basano sul concetto di biopolitica di Foucault: Come spiegato nella prima sezione, questo potere si definisce “in relazione a un campo biologico” (Mbembé, 2003, p. 17) con una linea chiamata razzismo che divide le persone in noi e la vita nuda e disponibile. Questo viene ripreso in Dispossession (Butler & Athanasiu, 2013, pp. 31-33), per cui l’umanità viene assegnata in modo differenziato con un confine tra chi è reso propriamente umano (cioè bios) e chi non lo è (cioè zoe), la vita usa e getta. La “logica dell’espropriazione” (Butler & Athanasiu, 2013, pp. 19-23), probabilmente uno strumento del necropotere, esclude i soggetti sventrando le condizioni di possibilità della vita e dell’umanità, sia zoe che bios, il che rende la “disposability assegnata” uno stato di disuguaglianza e indigenza indotta. Riflettendo le osservazioni di Mbembé e Agamben sullo stato di emergenza, un discorso di “crisi” è prodotto e gestito da un regime neoliberale che lo lascia come unica forma razionale e praticabile di governance (Butler & Athanasiu, 2013, pp. 149-150). In questo modo, la “crisi” diventa uno stato di eccezione perenne che tenta di eliminare ogni deviazione e consente la sospensione selettiva del diritto e la disposizione letale dei corpi (p. 168). D’ora in poi, la “necropolitica” è una di quelle norme regolatrici che controllano le performance che la costituiscono, per cui le performance, il loro ruolo nella riproduzione e il loro controllo sulle norme differiscono tra coloro che fanno lo spossessamento (per esempio, il politico che dichiara l’emergenza, il soldato che presidia il posto di blocco) e coloro che vengono espropriati (per esempio, eseguendo gli ordini).
Come si presenta la resistenza all’eliminabilità? Richiamando i precedenti commenti sulla resistenza, il punto di partenza è l’inefficacia di quelle performance reiterate, di quelle ripetizioni di norme/discorsi, e, di conseguenza, il potere implicato non può assoggettare completamente l’individuo. Mentre i performativi sono necessariamente implicati nella creazione della (dei processi necessari per la) precarietà, rimangono possibilità di invocazione critica e riarticolazione dell’ordine normalizzato (le soglie e i limiti) (cfr. Butler & Athanasiu, 2013, pp. 126-127). Nei movimenti di resistenza popolare, vediamo la “performatività della pluralità” che mette in crisi l’ontologia in cui si formano i soggetti e che non solo ridimensiona lo spazio pubblico (ad esempio le proteste di strada) ma anche la linea che delimita il privato dal pubblico (si veda il ruolo dei social media) (Butler & Athanasiu, 2013, pp. 153-155). La resistenza alla precarietà forzata riguarda le forze di sopravvivenza e di resistenza, che non sono la mera autoconservazione ma l’esercizio di contingenze di libertà anche in condizioni di vita non libere e spoglie (cfr. pp. 180-183). Tuttavia, le condizioni materiali determinate dall’indigenza possono minare il desiderio e la capacità necessari per un soggetto che possa interrogarsi e offrirsi agli altri (pp. 109-110). Al contrario, solo Mbembé menziona la resistenza e lì si riferisce al martirio (cioè ai kamikaze) visto come espressione di libertà: Collegando la propria morte alla morte degli altri, il corpo viene sacrificato per superare la mortalità e la mancanza di libertà (Mbembé, 2003, pp. 36-39). Questo è chiaramente un percorso di resistenza molto più stretto, poiché la sottomissione al potere della morte può essere sconfitta solo sacrificando la vita che deve essere uccisa ma non sacrificata (cfr. Agamben, 1998, pp. 71-73).
Per esemplificare rapidamente le conseguenze di questa riconcettualizzazione, userò la situazione dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), perché è stato il primo e principale esempio di Mbembé per illustrare la sua teoria della necropolitica, e la situazione dei Rohingya in Myanmar e Bangladesh, per il suo carattere contemporaneo. Per quanto riguarda l’OPT, Mbembé (2003) parla di “dominazione assoluta” (p. 30), caratterizza la logica prevalente di sopravvivenza come quella di “ogni uomo è nemico di ogni altro” (p. 36), e la libertà come derivante solo dal martirio (pp. 37-39). Nel frattempo, nelle forme ordinarie di resistenza, come il non rispetto delle restrizioni israeliane, o nelle proteste settimanali contro il muro a Bil’in, che taglia fuori i residenti dal 60% del terreno agricolo del villaggio (O’Loughlin, 2007), possiamo vedere l’esercizio della libertà-come-resistenza da parte della vita apparentemente nuda. Soprattutto le donne, per esempio, praticano l'”ṣumūd”, un’infrapolitica della resistenza quotidiana (nonviolenta), a livello ideativo mantenendo ostinatamente gioia e speranza sotto forma di lotta per mantenere una vita normale e piacevole, collegando tale ricerca alla resistenza contro l’occupazione israeliana e il controllo patriarcale (Richter-Devroe, 2011). Per fare un altro esempio: Come documenta l’Independent International Fact-Finding Mission on Myanmar (FFM Myanmar, 2018), i Rohingya sono stati soggetti per anni a severe restrizioni dei loro diritti umani, tra cui severe restrizioni di movimento, severe misure di controllo della popolazione o apolidia (pp. 137-138; pp. 127-128; pp. 137-138), e ora sono diventati addirittura vittime di un genocidio (pp. 365-366). Questo ha portato a un esodo di massa verso il Bangladesh, dove molti ora vivono in condizioni di indigenza in campi profughi sovraffollati (Frelick, 2018, pp. 9-11; Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, n.d.). Nonostante ciò, essi praticano ancora la resistenza, ad esempio rifiutando di essere rimpatriati in Myanmar (Ellis-Petersen, Rahman, & Safi, 2018), continuando una lotta violenta all’interno delle cosiddette organizzazioni armate etniche (come l’Arakan Army; es. Amnesty International, 2019), o praticando varie forme di attivismo che pubblicizzano la loro condizione (es. rohingyatoday.com) – per non parlare di tutti gli atti non documentati di resistenza quotidiana.
Conclusione
Vedendo la necropolitica e la nuda vita come costruite e materializzate dalle ripetute performance dei soggetti, possiamo riconcettualizzare queste teorie e possiamo spiegare gli atti di resistenza che avvengono quotidianamente a Gerusalemme est o in Myanmar come derivanti dalla riarticolazione di quegli atti reiterati. Anche il necropotere non è onnipotente e può materializzarsi o sottomettersi completamente come dimostra la necessità della ripetizione. Idealmente, ulteriori ricerche dovrebbero indagare ulteriormente tale evoluzione teorica di concetti come necropolitica e homo sacer verso un resoconto performativo, per esempio fornendo un resoconto dettagliato di come le teorie cambierebbero in dettaglio o facendo ricerche empiriche che testino ulteriormente la compatibilità di tale potere repressivo con la resistenza qui esaminata.
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Note
I dubbi sulla costruzione e le prestazioni di elementi apparentemente naturali non sorgono qui
Scritto da: Jonas Skorzak
Scritto a: University College Maastricht
Scritto per: Birsen Erdogan
Data scritta: Maggio 2019
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